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A tu per tu con la Tristezza

Il significato dell'emozione che ci stende, fino a un certo punto...

Sembra di essere senza forze, ci si muove quasi a fatica e sicuramente senza voglia…il pensiero fisso su quello che non c’è più…le spalle sembrano quasi appese al collo e un senso generale di vuoto pervade l’essere…La pelle è priva di tono e il colorito tende al pallido…sembra che un peso enorme porti verso terra tutte le parti del corpo…

ADESSO BASTA! Prima di continuare a leggere sull’emozione della tristezza, muovetevi energicamente e pensate SUBITO a qualcosa di BELLO e DIVERTENTE. Sorridete, anche forzatamente, ma fatelo. Fatelo ora!

La tristezza è un’emozione altamente contagiosa ed è facile che sia pervasiva: quindi assicuriamoci di lasciarla andare. Almeno che non rimanga a causa mia e di questo post!

Che senso ha essere tristi? Perché esiste la tristezza e che significato bio-fisiologico ha?

La tristezza è una delle emozioni “fondamentali” secondo la maggior parte degli psicologi. In tutte le formulazioni teoriche sulle emozioni, la tristezza (o suoi sinonimi), è presente. Esattamente come la Felicità, la Paura e la Rabbia.

In genere parlo di “famiglie di emozioni”, cioè stati simili di attivazione psico-fisiologica che si distinguono solo per intensità e durata. Immaginiamo quindi un continuum di stati che vanno da un livello minimo ad un livello massimo. Se pensiamo alla “famiglia della rabbia”, possiamo forse partire dal “disappunto”, per arrivare al massimo possibile, che potremmo chiamare “furore”. In mezzo abbiamo tutti gradi di rabbia, distinti da parole differenti, e che indicano la presenza della stessa emozione fondamentale. 

Nella tristezza possiamo avere al limite minimo il “dispiacere”, mentre al massimo potremmo avere il “dolore”.

La tristezza insorge quando sperimentiamo la perdita di qualcuno rilevante per noi, o come si dice in psicologia “significante”, cioè che rappresenta per noi qualcosa di valore. Sperimentiamo la tristezza anche per la perdita di qualcosa, anche questa importante per noi. 

Non parliamo per forza di eventi luttuosi o drammatici: anche la perdita di un oggetto caro può generare tristezza. Un cambio di lavoro, un trasloco, sono eventi che possono farci diventare tristi.

Spesso, in seguito a un evento spiacevole, la tristezza non è la prima emozione a manifestarsi. Quando perdiamo qualcosa a noi caro, la prima emozione potrebbe essere definita come “dolore”, soprattutto se la perdita è improvvisa. Non pensiamo al dolore fisico, anche se alcune caratteristiche possono essere simili. Pensiamo invece a quel dolore psicologico che ci fa urlare, strepitare e piangere. Quel dolore che è effetto di un rifiuto ostinato di accettare la perdita che stiamo vivendo, perché proprio non ci possiamo credere che sia successo proprio a noi. Successivamente, al rifiuto si sostituisce una forma di rassegnazione, magari accompagnata da una dose di rabbia che poi tende a scomparire.

La tristezza è un’emozione sorda e perniciosa, che porta a una passività generalizzata. Quando siamo tristi, agire è difficile e pesante. È uno stato fisiologico molto diverso rispetto alla paura e alla rabbia: entrambe queste emozioni tendono ad attivarci, seppur in misura differente.

Capiamo quindi che ci deve essere un significato sfuggevole nel perché dell’esistenza della tristezza. Perché mai un animale dovrebbe essere passivo? Perché viene da dire: “essere a terra” oppure “essere come un sacco vuoto”?

Senza l’esistenza (anche) della tristezza e di tutte le sue sfumature, non avremmo momenti per permettere al nostro corpo di ricaricarsi, di riprendere energie. Dopo un evento che ci ha abbattuto, abbiamo bisogno reale di stare con noi stessi a “riempire nuovamente quel sacco svuotato”. Se non ci fosse questo tempo per noi, non sarebbe facile riprendersi di nuovo.

È anche un tempo per riconsiderare aspetti di noi stessi e della nostra vita. In fondo si dice (e credo che in qualche misura possa essere vero) che nella vita s’impara dalle sconfitte e dalle perdite. Così impariamo a relativizzare le cose: dare peso a nuove sfide e scartarne altre che non ci appartengono più.

Ecco perché, in qualche misura, non è corretto cercare di privarsi in modo forzato e artificiale della naturale tristezza di cui stiamo parlando. Molti cercano di evitarla a tutti i costi, per non soffrire. Così facendo, spesso succede che la sofferenza è solo rimandata e tende a ripresentarsi aumentata.

E quindi, siamo condannati? Diciamolo chiaramente: a nessuno piace essere triste! Ma se accade, abbiamo una sola possibilità: starci e passarci attraverso, finché l’emozione non si attenua fino a sparire. O almeno fino a che non fa più così tanto male, da permetterci finalmente di rimetterci in moto con nuovi stimoli.

Abbiamo una tecnica per almeno contenere la tristezza? Possiamo costruirci un tempo e uno spazio in cui relegarla: nei momenti difficili, in cui “il sacco è particolarmente vuoto”, scegliamo una mezz’ora durante la giornata (sì, proprio trenta minuti d’orologio) e uno spazio in casa che diventerà transitoriamente “il luogo della tristezza”. Volontariamente pensiamo alla nostra perdita, nei suoi dettagli: pensieri e sensazioni associate, immagini, suoni, sensazioni, parole, sapori,... Stiamo lì finché non suona la sveglia che avevamo puntato, trenta minuti dopo. In quel preciso momento, si lascia lo spazio dedicato, ci si lava il viso (meglio fare una bella doccia, se possiamo) e si ricomincia con le attività che ci aspettano. 

Dobbiamo abituarci a considerare tutte le nostre emozioni come un bene prezioso per il nostro benessere generale. Rifiutarle, provare a controllarle non serve, anzi alla lunga sarà peggiore. Utile però sapere come indirizzarle in maniera funzionale e produttiva. E sapere che senza gli alti e bassi delle emozioni, non potremmo assaporare pienamente la bellezza di questa vita.

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