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Marta e le persone "intelligenti"

Come le nostre convinzioni possano essere disfunzionali e renderci talvolta inadeguati

Penso che i meccanismi di generalizzazione, con cui apprendiamo (e che quindi sono preziosi) siano in fondo un’applicazione sistematica di un pensiero discutibile: ho fatto un’esperienza che ha prodotto un risultato, quindi, in situazioni analoghe, tenderò a riproporre lo stesso comportamento. Ma chi ci dice, a priori, che il risultato sarà ugualmente soddisfacente?

Nel mio lavoro di coach, incontro spesso questa dinamica e molte volte è la radice di una difficoltà o di un problema.

Ripenso a un mio caso di un paio di anni fa…

(N.B. - I personaggi e il contesto lavorativo sono stati modificati per rendere irriconoscibile la situazione, nel pieno rispetto della privacy. La struttura dell'intervento è rimasta inalterata per mantenere lo scopo esplicativo del testo.)

Il caso
Marta era una giovane manager di un’azienda di trasporti. Dotata di grande potenziale e di cervello veloce (cosa che non sempre è un valore aggiunto), gestiva ufficio di sei persone ed era in difficoltà con due suoi collaboratori, che erano cruciali per alcuni servizi che l’azienda offriva ai clienti. Questi collaboratori, pur non entrando in aperto conflitto con lei, ne ostacolavano il lavoro, rallentandolo: documenti consegnati in ritardo, spesso anche a causa di assenze quanto meno sospette.

Considerazioni a corollario
Dai miei studi in Dinamica dei Sistemi e dalle osservazioni che faccio nella vita quotidiana, ho imparato che se qualcosa o qualcuno resiste molto ad alcuni stimoli, probabilmente è perché questi sono percepiti come minacciosi per la propria stabilità. Non ha importanza se questo sia vero o no, ha importanza come vengono percepiti da chi resiste.

Nel caso dei Sistemi Umani, nelle relazioni tra individui, la situazione è ancora più decisa: se inizio a pensare che qualcuno ce l’ha con me, e se non mi prendo la responsabilità di verificare se la mia percezione corrisponde al vero, questo diventerà la causa di molti miei comportamenti nel confronti di questo “qualcuno”. Quindi se lui/lei inizia a comportarsi con me in modo che io considero inappropriato, questo rappresenterà uno stimolo sgradito, a cui comincerò a reagire in vari modi. Gli esseri umani sono raffinati e hanno inventato vari modi per declinare in azioni il meccanismo biologico base del “lotta o fuggi”. Probabilmente inizierò a evitare il contatto, o se proprio non posso, tenderò a trattare l’altro in modo scostante, forse anche in modo aggressivo, a tratti. Certamente non sarò invogliato ad averci a che fare. Mi ci vorranno molte prove che smentiscano la mia credenza per permettermi di instaurare un minimo di relazione con quel “qualcuno” minaccioso.

L’intervento e i risultati
La frase preferita di Marta, a cui si ancorava con molta forza, ripetendola spesso, era: “Per me è scontato che le persone siano intelligenti e quindi non capisco come riescano a fare cose tanto stupide.” Una tipica credenza depotenziante, almeno per lei, in quella circostanza e nei confronti dei suoi due “dissidenti”. Un assunto di base, tutto da dimostrare, diventa una certezza incrollabile al punto da annullare altre possibilità operative.

Esplorando ancora un po’, abbiamo capito insieme che quella sua “frase famosa” la induceva ad accanirsi in modo particolare con i due colleghi resistenti, facendo quello che molto spesso si tende a fare in questi casi: aumentare la dose dello stesso comportamento, pensando che sia solo una questiona di quantità. Semplicemente e in buona fede, Marta si rivolgeva ai due molto più spesso che agli altri. Il suo tono di voce era di solito secco e acuto, al limite dello stizzito. Era successo alcune volte che aveva veramente alzato la voce, non facendo altro che peggiorare le cose. Avevamo trovato (Marta ed io) lo stimolo disfunzionale che faceva scattare la resistenza dei due dissidenti.

Ho ritenuto inutile andare a scavare sui retaggi a cui Marta si rifaceva per rinforzare il suo comportamento. Di solito è inutile e di scarso interesse ai fini della situazione presente.
Invece il lavoro si è concentrato su un sistematico ampliamento delle possibilità operative. Abbiamo fatto leva sulle emozioni, sul pensiero e quindi sulla capacità d’azione di Marta. Ogni volta che esprimeva la sua “frase famosa”, scattavano le mie domande, del tipo: “Come fai a dire che le persone sono intelligenti?”; “Che cosa deve accadere o esserci per permetterti di dire, senza errore, che una persona è intelligente?” Le risposte di Marta si facevano via via meno pronte, più esitanti: tipico messaggio meta-comunicativo che indica un vacillamento, un dubbio, almeno un conflitto interno. Il suo modo di considerare il concetto di “intelligenza” era entrato in una fase più funzionale, in cui si valutava che l’intelligenza è formata di molte parti ed è influenzata dal contesto e da molti altri fattori contingenti.

Piuttosto che fare perno sull’intelligenza come facoltà razionale, abbiamo quindi cominciato a lavorare sugli aspetti emotivi che impedivano a Marta di aver una relazione professionale utile con i suoi due collaboratori. Già, perché una volta assodato che l’intelligenza e il fare cose stupide non sono verità assolute ma contestuali, e avendo compreso che era proprio lei, Marta, la responsabile del radicarsi della sua credenza e degli effetti nocivi che portava con sé, quasi da sola, ha iniziato a mettersi in discussione.

Abbiamo quindi lavorato sugli schemi della paura e della rabbia, le sue emozioni ricorrenti e scritte qui in ordine non casuale. Il cliché di Marta era di negare a se stessa la paura che aveva del giudizio degli altri, soprattutto dei suoi superiori, entrando nella modalità “lotta” (una delle due componenti della diade di reazione “lotta o fuga”). Così diventava aggressiva con chi non era aderente a quelle che lei credeva essere le buone pratiche di lavoro. La conseguenza era quella serie di comportamenti disfunzionali che abbiamo già rilevato.

Con Marta hanno funzionato bene tecniche di visualizzazione e lavori sull’uso del paradosso per insegnare al suo cervello dei nuovi percorsi e nuovi comportamenti. Dopo alcune sessioni, Marta è riuscita a riprendere in mano completamente il suo ufficio, inclusi i due dissidenti “non intelligenti”. Ancora oggi mi risulta che i lavori vengono consegnati nei tempi prestabiliti e le strane assenze dal lavoro sono drasticamente diminuite.

Conclusioni
Quando si comincia a lavorare con un cliente, l’obiettivo, il punto d’arrivo è chiaro: bisogna risolvere la situazione. Il come ci arriviamo non possiamo saperlo dall’inizio. Per un coach è necessario avere un Sistema di Riferimento, ma questo dovrebbe rimanere flessibile e armonizzarsi con le esigenze del cliente e del lavoro da svolgere. Le conoscenze, le competenze e le esperienze si dovrebbero completare tra loro, diventare complementari e rinforzarsi, per creare una qualità superiore che emerge proprio grazie a tutto questo.
Ecco quello che intendo con la parola “sinergia”: qualcosa di superiore che risalta e si crea sia nel coach come professionista, mettendo insieme in modo funzionale tutti i talenti e le abilità che possiede e che ha affinato, sia nella relazione con il cliente, che è al tempo stesso protagonista e oggetto di questa sinergia.

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